giovedì 24 settembre 2009

The Cure



Dopo trent'anni di carriera è difficile dire cosa spinga ancora Robert Smith a scrivere canzoni e soprattutto a calcare ossessivamente i palchi dei concerti live, quasi che i Cure contendano agli U2 il titolo di "Rolling Stones della new wave". Certo, mentre la tradizione delle malinconie inglesi continuava oltre di lui (trionfando coi Radiohead), il cantante dei Cure è riuscito a crearsi un mondo a parte tanto inquietante quanto consolatorio, a cui un certo tipo di pubblico sembra continuare a far ritorno per ristoro e conforto.
Per capire le ragioni del mito bisogna però necessariamente rivolgersi all'indietro, a come Smith e compagni apparivano nel video-concerto "The Cure In Orange" del 1986, registrato in Provenza, nel Theatre Antique d'Orange: degli estrosi visionari, persi al labile confine tra i sogni e gli incubi, tra la solitudine e l'amore, tra il peccato e l'innocenza.
Svanito il clima festaiolo degli anni Novanta, poco propizio alle inquietudini per i britannici, il fosco clima del Duemila sembra favorire un ritorno alle introspezioni nervose della vecchia onda. E' il plauso delle nuove generazioni di musicisti, nonché il generale clima di revival della new wave, a stimolare dunque il ritorno del 2004, che vede i Cure in tour con Mogwai, Interpol, The Rapture.
Sull'album The Cure colpiscono l'energia fisica delle esecuzioni e la ritrovata verve vocale, più delle singole canzoni, che sferrano frastornanti bordate rock in casi come "Lost", "Labyrinth", "The Promise", per poi far rimpiangere i vecchi sdilinquimenti acustici nei due minuti di "Going Nowhere". "Lost" è un crescendo isterico che cita un vecchio brano improvvisato, "Forever", con cui i Cure solevano chiudere i concerti negli anni Ottanta, cambiandolo ogni sera.
A stupire sono le sonorità, di una asprezza degna dei Nine Inch Nails. "Labyrinth" rispolvera le vecchie ritmiche tambureggianti e costruisce il suo incessante crescendo su un riff orientale, con la voce di Smith dapprima effettata e poi liberata nella sua furia sopra gli strumenti. "The Promise" riesce nel tentativo prima fallito di costruire un brano lungo (dieci minuti) e fluido, appoggiandosi però alla citazione della vecchia "The Kiss", nella sua tempesta wah-wah. L'arrangiamento elettronico di "Anniversary" è forse la cosa più interessante, in quanto estranea ai furori di Ross Robinson, e perché indica una strada che Smith avrebbe potuto seguire in modo convincente, a patto di scegliere i collaboratori giusti.
In generale, l'album sembra oscillare tra la capacità di riproporre le vecchie idee in un contesto più attuale e il rischio di scadere in un patetico mescolarsi alle giovani generazioni di emo-kid.

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