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L'altra faccia della medaglia in questa crescita esponenziale della fama dei Joy Division è data dalla crescente instabilità di Ian Curtis: un carattere capace di sbalzi estremi dall'allegria alla depressione totale, un atteggiamento arrivista e pronto a tutto per raggiungere il successo, come se già sapesse di avere un posto riservato nell' Olimpo del Rock, l'epilessia da poco cominciata che lo tormentava continuamente, e un impeto distruttivo sul palco, dove inscenava ad ogni concerto quella che agli occhi del pubblico e dei suoi compagni sembrava una recita macabra e gotica, ma che in realtà era semplicemente un modo di mostrare agli altri il proprio dramma e la propria sofferenza.
Dieci brani da brivido, il malessere dell'uomo e il nichilismo fatti musica; gelidi sin dalla copertina, un elettrocardiogramma bianco su sfondo nero e nulla più, gelidi ancor di più nelle note, basti pensare a pezzi come Disorder e Day of the Lords, con quel basso sordo e compatto, o ancora al senso di anestesia che ispirano Candidate o New Dawn Fades, e anche quando il ritmo si fa più serrato, come in Shadowplay o Wilderness, i brani che più si avvicinano al punk e alle prime composizioni del gruppo, senti comunque che c'è qualcosa di diverso, qualcosa di strano e inesplicabile, come una presenza spiritica in sottofondo.
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